
Fino a un paio di secoli fa camminare era considerato un riflesso naturale. Pur essendo un gesto volontario, rimaneva quello più prossimo a una reazione muscolare involontaria, perché non si sceglieva di camminare, semplicemente si doveva: si camminava per spostarsi e ci si spostava per cercare cibo, per scambiare merci, per fuggire o per tornare, per esplorare nuove contrade e per incontrare nuove genti.
Era quindi un atto necessario, strumentale a quasi tutte le attività, dalla guerra alla mercatura, o alla semplice convivenza e veniva ritenuto tale, per estensione, anche ai fini di una corretta igiene mentale. Entro questi limiti, quelli di una risposta quasi meccanica alla necessità, il deambulare è stato infatti visto da sempre anche come un’attività legata al pensiero, capace di stimolare la riflessione o di curare i mali dell’anima.
Sulla sua funzione terapeutica erano d’accordo pagani e cristiani, atei e credenti, pur con qualche eccezione illustre: Cartesio, ad esempio, nelle Meditazioni associa il lavoro intellettuale solo alla quiete totale del corpo. Così san Girolamo riassumeva in una formuletta essenziale, Solvitur ambulando, quanto prima di lui a proposito della tranquillità dell’animo aveva già scritto Seneca:
Dovremmo fare passeggiate all’aperto, per rinfrescare e sollevare i nostri spiriti con la respirazione profonda all’aria aperta.
E prima ancora era stato messo in pratica da Socrate e dai suoi discepoli, da Aristotele e dai peripatetici, dai sofisti e dagli stoici che passeggiavano sotto il porticato.
Ammettere che esistesse una connessione tra il movimento dei piedi e quello dei pensieri non significava tuttavia che al camminare fosse dedicata una riflessione specifica. Proprio perché lo si considerava naturale, a questo gesto non veniva riconosciuto un qualche significato autonomo, un valore intrinseco: era semplicemente funzionale ad altro.
Mercanti, soldati, funzionari, tutti coloro che si muovevano per lavoro, non camminavano affatto per scelta: andare a piedi non era una moda, ma un modo per spostarsi, spesso l’unico possibile. Persino coloro che lo sceglievano, almeno teoricamente, come i pellegrini – ma non sempre, in molti casi i pellegrinaggi erano imposti –, in realtà erano condizionati dalla finalizzazione del gesto a una penitenza. Camminare, oltre a consentire di riflettere sui propri peccati, rappresentava una forma di espiazione, un’anticipazione della pena del purgatorio. La gratificazione psicologica non nasceva dal gesto in sé, ma dalla sua presunta capacità di sgravare il debito contratto con Dio.
Quindi, se è vero che gli itinerari percorsi dai viaggiatori del Sette-Ottocento erano già stati tracciati nei secoli precedenti da una miriade di camminatori, è lo spirito nuovo con i quali sono affrontati, è il ‘cuore leggero’ a fare la differenza e ad attrarre il nostro interesse. Nessuno dei pellegrini in viaggio verso Canterbury o verso Roma, dei chierici vaganti, dei saltimbanchi, dei venditori ambulanti o dei vagabondi che brulicano nelle letterature classiche o medioevali ha una coscienza specifica del camminare, se non come gesto simbolico o metafora religiosa.
Il pellegrinaggio per eccellenza, il percorso di purificazione raccontato da Dante, va compiuto rigorosamente a piedi. Questo il poeta lo dà per scontato e noi stessi non siamo in grado di immaginare alcuna altra possibilità: non c’è scelta e non c’è gioia nel camminare, al più sono sottolineate le difficoltà, che costituiscono un valore penitenziale aggiunto.
Piuttosto, qualche anticipazione di quello che sarà lo spirito moderno la si può cogliere nelle passeggiate solitarie di Guido Cavalcanti che, non a caso, tra i concittadini godeva fama di eccentrico. Tra l’altro, anche Guido intraprese un pellegrinaggio a piedi, questo reale, verso Compostela ma lo interruppe nei pressi di Tolosa, dopo aver incontrata una bella ragazza, e forse l’elemento di modernità sta proprio in questo.
Oppure, alcuni tratti del camminare romantico sono rintracciabili in Petrarca, ad esempio in Solo e pensoso, anche se il poeta continua a presentare le sue deambulazioni come una fuga. La novità in questo caso è costituita dal rapporto che il camminatore instaura con la natura. Si tratta tuttavia di indizi che rimandano a personalità particolari e non possono essere letti come spie di un atteggiamento culturale in trasformazione.
Mi sembrano già tali, invece, i segnali che arrivano dall’Umanesimo, conseguenti alla rivalutazione di ogni attività o prerogativa umana. In prima linea in questa direzione troviamo, e non c’era da dubitarne, Leon Battista Alberti, del quale Jacob Burckardt dice:
Egli voleva apparire irreprensibile e perfetto in tre cose: nel camminare, nel cavalcare e nel parlare.
Ciò significa che considerava il camminare non come una reazione muscolare più o meno volontaria, ma come un esercizio che può essere culturalmente disciplinato e perfezionato. E questo è già un notevole passo verso un’attenzione non puramente strumentale al gesto.
Un’attenzione che viene ripresa e addirittura codificata un secolo dopo nel Cortegiano: le indicazioni di Baldassar Castiglione riguardano la postura, l’eleganza del gesto, l’equilibrio delle varie parti del corpo coinvolte, e quindi hanno ben poco a vedere con l’idealità romantica ma sembrano tornate di moda nella postmodernità, attraverso la miriade di manuali e pubblicazioni dedicate oggi agli aspetti tecnici della marcia.
Un altro tipo di apertura alla concezione moderna del camminare lo troviamo, sempre nel Cinquecento, in Leonardo Fioravanti, il medico autodidatta precursore nell’uso di terapie ancor oggi valide e scopritore di farmaci, oltre che viaggiatore instancabile, raccontato da Piero Camporesi in Camminare il mondo. Vite e avventure di Leonardo Fioravanti medico del Cinquecento:
Camminare il mondo era, per Fioravanti, l’unico immutabile, ossessivo baricentro, mobile e incerto, dell’esistenza.
In questo caso è ancora presente, e prevalente, la finalizzazione del gesto, perché Fioravanti
sapeva per esperienza che la Terra era un viscido labirinto pieno d’inganni e gabberie, nel quale solo chi sapeva nuotare riusciva a galleggiare e a sopravvivere, nella migliore delle ipotesi, in una ‘gabbia di matti’.
Ma il fine è un apprendimento itinerante costante, nel quale il metodo, il muoversi a piedi, è parte integrante dello scopo. Camminare rimane comunque un imperativo anche per chi dalla ‘gabbia di matti’ pensa si dovrebbe uscire.
Al tramonto del Rinascimento Tommaso Campanella immagina per la sua Città del Sole un sistema educativo basato sul connubio tra teste e piedi:
li figliuoli, senza fastidio, giocando, si trovano saper tutte le scienze istoricamente prima che abbin dieci anni.
Funziona così. Anziché rimaner chiusi nelle aule, i giovani solariani sono condotti dai loro insegnanti a passeggiare attorno alle mura della città, sulle quali sono dipinte, appunto istoriate, come su un’enorme lavagna in cinemascope, le immagini di tutto ciò che è funzionale al sapere, a partire dalle lettere dell’alfabeto per arrivare alle forme geometriche, alle raffigurazioni di tutti i metalli e minerali, di tutte le piante ed erbe, di tutti gli animali, e poi ancora di tutte le arti e le invenzioni dell’umanità, e dei loro inventori. Nella cupola e sulle pareti del tempio infine sono raffigurate le stelle e i pianeti.
Gli scolari della Città del Sole imparano nel corso dei loro giri a leggere e a fare di conto, e apprendono gradualmente tutte le nozioni scientifiche basilari. Chi fatica un po’ a comprendere o a concentrarsi ripeterà più volte il giro e fruirà in contropartita di un maggiore allenamento corporeo. Ambulando discitur, in senso strettamente letterale.
Per il momento però si tratta ancora di una camminata urbana, o almeno circumurbana: per Campanella e per i suoi contemporanei, Bacone e Galileo soprattutto, la scienza si fa con l’esperimento, in laboratorio, più che con l’osservazione sul campo. E tuttavia le scoperte geografiche e l’incontro con ambienti e popoli nuovi stanno preparando la trasformazione della mentalità. Nei secoli successivi l’invito sarà a uscire dalle città e dalle aule per studiare la natura attraverso il contatto diretto.
Scarica l’eBook per continuare a leggere