Ci sono almeno due tipologie di persone che manifestano una scarsa adattabilità.
La prima è quella più o meno ufficialmente riconosciuta e da sempre perseguitata (oggi anche e soprattutto da chi ritiene necessario cancellare i margini, e così facendo nega in sostanza quel diritto alla differenza che pretenderebbe di difendere).
Gli appartenenti a questa categoria trovano la vita troppo larga, troppo piena, troppo confusa, e hanno bisogno di cintare un loro spazio, un loro margine appunto, nel quale rifugiarsi. Purtroppo questo spazio è spesso violato dalla prepotenza e dell’invadenza altrui, per cui i poveretti sono in fuga costante. Si sentono inadatti perché la vita soffia loro sul collo e non concede il tempo e l’occasione per amarla. Nei crudi termini della selezione naturale avrebbero poche chanches, ma dal momento che come diceva Wallace la selezione non è più tanto naturale, si stanno invece moltiplicando.
C’è poi una seconda tipologia cui appartengono i personaggi di cui ho scritto.
I soggetti di questo tipo non si sentono o non sono oggettivamente ai margini della vita. Tutt’altro. La amano a un punto tale da volerne vivere altre, e non dopo, ma subito.
Il tempo e gli spazi di una sola esistenza vanno loro stretti, ragion per cui ne costruiscono di parallele, spesso con qualche comprensibile difficoltà a raccapezzarcisi. C’è tanto da fare al mondo, tanto da vedere, da capire, da conoscere, magari da correggere, che non possono permettersi un attimo di sosta, né fisica né mentale. Sono alla costante ricerca di altro, non per insoddisfazione, ma per curiosità. Li definirei dei quasi adatti.
Il disagio in questo caso nasce dalla mancata sintonia della mente con il corpo, come se la prima non volesse farsi una ragione dei limiti fisici del secondo. Il che non significa avere una massa di materia grigia più grande della scatola cranica in cui è costretta, quanto piuttosto avere una centrifuga cerebrale in perenne attività, neuroni impazziti che non girano in tondo nella vaschetta come i pesci rossi ma sbattono e rimbalzano da una parte all’altra, in un caos perpetuo. Tutto ciò è sostanzialmente innocuo e ha il solo effetto di uno spaesamento spazio-temporale costante, di una distonia avvertita più dagli altri che da chi ne è soggetto. Presenta sintomi ben precisi, ha le sue brave cause scatenanti ma è legata soprattutto a una disposizione che chiamerei genetica, prima ancora che etica.
Il fattore predisponente è un amore vero per la storia, quello che non si accontenta della spettacolarità dei Grandi Eventi, interpretati dai Grandi Attori, ma nemmeno dell’immagine di un tritasassi inarrestabile che riduce alla fine tutto in polvere.
Un tipo di amore che nella storia cerca un senso, e non un verso: e trova che il senso alla storia lo ha dato il lavoro quasi sempre oscuro di quanti hanno saputo tener viva in sé e proporre agli altri l’umanissima (questa sì) aspirazione alla dignità e alla coerenza.
Questo lavoro, se ci riflettiamo, lo hanno fatto tutto e sempre i quasi adatti, quelli che in luogo di adeguarsi alla determinazione ambientale, ai vincoli imposti da una situazione sociale, da una condizione personale o da una contingenza storica hanno scelto di vivere “come se”, e così facendo alla vita hanno aggiunto un valore.
Per farlo hanno dovuto costantemente violare il confine tra il reale e l’ideale, tra un’esistenza che impone tempi, spazi e rapporti e un’altra, o più altre, che consentono invece di sceglierli, cercando di trasferire nella prima la pienezza di senso possibile nella seconda. Sto parlando evidentemente di sognatori, che però, a dispetto dell’apparenza, sono coscienti di sognare, lo fanno per una scelta consapevole e sono seri con i loro sogni.
E sono confortati a esserlo dalla certezza che altri prima lo hanno fatto, dalla possibilità di raccogliere il testimone di una staffetta che va avanti da quando l’uomo ha sviluppato una coscienza morale.
Per questo continuo a scrivere di quasi adatti. Ho la presunzione di mantenere in vita in qualche misura il loro sogno, magari di farne partecipi anche altri, e soprattutto la cosa mi consente di attraversare a mio piacere gli specchi nei quali vorrei riflettermi. Le vite che ho raccontato sono estremamente diverse tra loro, ma avrei voluto viverle tutte.
Paolo Repetto
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